LA PSICOLOGIA DELLA COLPA

 

 

Tutti siamo turbati occasionalmente da ansietà ricorrenti, frutto di qualche colpa occulta.

Oltre al senso di colpa abbiamo un altro problema: l’autoaccettazione. Tutti vogliamo sentirci bene con noi stessi. Vogliamo sentirci importanti, degni e accettabili agli altri. Ma soprattutto vogliamo vivere in armonia con noi stessi. Vogliamo credere di essere attraenti e che viviamo in accordo alle nostre capacità.

Dato, però, che a volte sbagliamo, ci sentiamo inclinati ad alimentare sentimenti di fallimento, di indegnità e di autorigetto. Questo ci impedisce di avere una vera libertà.

 

Ad alcuni risulta difficile sentire piacere. Durante le vacanze, sia estive che occasionali, pensano che stanno perdendo il tempo. Hanno difficoltà a riposare, a prendersi cioè delle pause. Altri scelgono una cattiva moglie/marito o occupazioni indegne. Se la felicità li coglie in un momento della loro vita, la trasformano in disgrazia.

C’è chi vive pieno di vergogna nei propri confronti. C’è chi si prende la colpa di tutto quello che succede, anche se i responsabili sono chiaramente altri. Hanno difficoltà ad accettare una manifestazione d’affetto, perché pensano di non meritarla.

Quando si insiste troppo coi figli sul senso di dovere e responsabilità, il piacere diventa un lusso innecessario. Alcuni si sentono tesi o a disagio in un certo ambito sociale, manifestando difficoltà a partecipare alla conversazione del gruppo. Quando vengono guardati pensano: “Stanno forse parlando di me”, oppure: “Se sapessero realmente come sono, vorrebbero la mia compagnia?” Questo timore produce una ansietà molesta, che viene vista non come una colpa ma una insicurezza sociale.

Altri hanno difficoltà a dire di no. Per timore alla disapprovazione assentono ad ogni richiesta di aiuto. Sotto una forma di altruismo si stanno obbligando a rinunciare alla loro libertà individuale e al loro tempo libero. Non pensano a divertirsi per timore di essere considerati egoisti e poco amabili.

Alcuni ricorrono a regali o a gentilezze per occultare una colpa intima (un regalo ad un figlio, invece di dedicargli il proprio tempo).

 

A volte giudichiamo gli altri per occultare le nostre colpe. Mettiamo enfasi nei loro errori per evitare di essere noi il centro dell’attenzione altrui. Matteo 7:1-4 e Genesi 38:1-30 ci mostrano il meccanismo della proiezione inconscia dei nostri errori sugli altri.

Per molti le relazioni prematrimoniali non sono altro che avventure per affermare l’Ego o tentativi frenetici di soddisfare un’ansia interiore di accettazione. Questi rapporti, però, lasciano insoddisfatti. C’è chi diventa frigido, o passa da una relazione all’altra senza fissarsi su nessuna in modo soddisfacente.

Giudizi troppo scandalizzati, soprattutto dei genitori in presenza dei figli, possono far nascere il sentimento che il sesso sia una cosa sporca, provocando sensi di colpa nel rapporto matrimoniale.

C’è chi soffre di senso di colpa a causa del suo benessere materiale, avendo la consapevolezza che molti popoli nel mondo soffrono la fame.

 

 

 

Attitudini che formano il senso di colpa

 

Queste tre attitudini formano il nucleo dei sentimenti di colpa:

- Timore al castigo

- Senso di depressione, indegnità e mancanza di stima propria

- Isolamento e rigetto

 

I sentimenti di colpa vengono quando i nostri pensieri o il nostro comportamento non sono all’altezza dei nostri ideali. Poco dopo la nascita incominciamo a sviluppare un gioco di mete ideali e aspirazioni. Impariamo che un certo tipo di condotta è desiderata e sollecitata dai nostri genitori, veniamo istruiti a fare questo o quello e man mano che cresciamo assimiliamo altri valori dall’ambiente. Questo insieme  di mete costituisce il cosiddetto “Io ideale”. Anche se i nostri valori possono cambiare gradualmente con nuove esperienze, le sue linee direttrici rimangono fissate nei nostri anni giovani.

C’è, però, un’altra forza che modella la parte più profonda del nostro Io: i concetti morali universali. Ogni persona e ogni società ha avuto un certo senso innato del bene e del male. Questo concetto interiore giudica in silenzio le nostre azioni come parte del nostro Io ideale.

 

Mentre assorbiamo alcuni degli ideali dei nostri genitori, assorbiamo anche i loro metodi e i loro atteggiamenti di fronte al nostro cattivo comportamento. Da adulti tendiamo a ripetere i loro metodi di correzione su noi stessi. Questa è la voce del nostro padre interiore, il cosiddetto “Io correttivo o punitivo”.

Per capire come si generano i sentimenti di colpa, vediamo gli atteggiamenti dei genitori quando ci comportavamo male rispetto alle loro norme:

- Castigo con ira o frustrazione

- Senso di vergogna per il cattivo comportamento

- Rigetto sottile per l’errore commesso.

Fin da piccoli normalmente ci si sente dire: “Siccome hai fatto questo, devi essere castigato”. Così, ogni volta che violiamo il codice morale ci aspettiamo il castigo. Ciò ci rende ansiosi e turbati. Ricevuto il castigo ci sentiamo sollevati, perché abbiamo pagato il nostro debito e possiamo tornare a vivere senza paura. Il castigo espia il cattivo comportamento e così allevia l’ansia.

Anche le sole minacce verbali possono provocare l’ansia del castigo. In assenza dei genitori, a volte, i bambini si autopuniscono per uscire dall’ansia del castigo per il cattivo comportamento. La maggior parte delle persone non fa appello al castigo fisico per autopunirsi, ma lo sostituisce con un dolore o minaccia mentale di castigo. Ci diciamo: “Ti sei comportato male. Non devi agire in questo modo. Un giorno sarai scoperto e la pagherai una volta per tutte”. Questo tipo di minaccia sostituisce il castigo che temevamo da bambini.

A volte trasferiamo su Dio il nostro timore al castigo. Viviamo sotto una costante aspettativa di giudizio per il male che facciamo. A volte pensiamo che Dio ci castigherà per mezzo di un incidente o inviandoci una malattia. Molte donne temono di dare alla luce un figlio deforme.

 

A quasi tutti noi è stato detto: “Non hai vergogna per quello che hai fatto?” oppure: “Ti rendi conto di quello che ci hai fatto? Come puoi ripagarci in questo modo?”. Questo tipo di castigo conduce a una delle cause di fondo della depressione: la perdita di stima propria, cioè una scarsa valutazione di se stessi e del senso di dignità personale.

Se da bambini ci viene detto spesso che siamo cattivi, ciò produce profondi sentimenti di insufficienza e una povera immagine di se stessi. Da adulti penseremo di non riuscire a combinare mai niente di buono. Una conseguenza di questa situazione è l’incapacità del soggetto di prendersi riposo e vacanze, a causa del bisogno di vedersi continuamente occupato in qualcosa per non sentirsi colpevole.

 

Tutti i bambini sono oggetto occasionale della rabbia di una persona cara, che può in tale circostanza arrivare anche a dire: “Mi dai fastidio, vattene via!”

Davanti alla prospettiva di perdere il loro amore tutti i bambini (ma anche gli adulti) cercano di cambiare per farsi accettare nuovamente. La minaccia del rigetto riempie il bambino di timore, di un profondo timore.

Le occasioni in cui esplodono la rabbia e la frustrazione dei genitori minano costantemente il messaggio d’amore incondizionato verso i figli. La maggior parte di noi ha vissuto delle esperienze che gli hanno inculcato nella mente l’idea di essere amati meno quando ci comportiamo male. Da adulti, così, sviluppiamo dei sentimenti di rigetto a nostro danno quando non ci comportiamo come pensiamo la gente si aspetta.

 

Dovuto, quindi, alle pratiche disciplinanti e punitive dei nostri genitori e di altre persone adulte, sviluppiamo:

- Una forma di autocastigo che sostituisce le punizioni esterne ricevute o attese

   durante gli anni dell’infanzia.

- Una perdita della stima propria o un sentimento di indegnità.

- Ansia continua per perdita di amore dovuto al nostro cattivo comportamento.

Da adulti, quando non agiamo d’accordo ai nostri ideali, l’Io punitivo entra in azione, evocando minacce di castigo, rigetto o perdita della stima propria. Sentimenti, questi, che sperimentiamo in forma di colpa.

 

 

 

Stratagemmi della colpa

 

La colpa ci priva della felicità e sotto i suoi effetti tendiamo a scaricarla su altri.

Durante una riunione una sposa manifestò pubblicamente la sua insoddisfazione per il fatto che il marito passava poco tempo in famiglia. “Ama più il suo lavoro di noi”, disse, affinché il consorte si sentisse pieno di vergogna davanti ai suoi amici. Spesso, però, queste accuse pubbliche aumentano soltanto il risentimento di chi le subisce, con conseguente attitudine opposta rispetto a quanto si era proposto la lamentela.

 

Quando veniamo minacciati con il rigetto, il castigo o la perdita della stima propria,  migliora la nostra condotta? In generale reagiamo secondo quattro modelli, che hanno la finalità di evitare il dolore causato dal senso di colpa:

 

- Darsi per vinto

   Una delle forme più facili, ma più dolorose, per maneggiare il senso di colpa è quella

   di arrendersi e lasciarsi trascinare via dalla depressione. Accettiamo le accuse che

   ci colpevolizzano e ci sentiamo distrutti.

 

- “Ti faccio vedere io!

   Un’altra risposta abituale è la rabbia e la ribellione. Reagiamo pensando: “Ti faccio

   Vedere io!” Molti adolescenti reagiscono in questo modo. Ubbidiscono ai loro genitori

   per paura, ma nello stesso tempo stanno pensando: “Aspetta che abbia 18 anni e poi

   vedrai!”

   Jerry, figlio di un pastore, cercava di assumere il ruolo del bravo figlio, però temeva

   che mai sarebbe riuscito a soddisfare le aspettative dei suoi genitori. Incominciò a

   sentirsi depresso, ad auto commiserarsi e a sentirsi colpevole. Si isolò da tutti e si

   mise a bere. Lasciò, poi, il suo incarico di diacono, pensando di sentirsi più libero.

  

   Molti fanno così con Dio. Cercano di ubbidire alla Bibbia e quando se ne vedono

   incapaci, il loro senso di colpa sempre più grande li porta a dichiararsi atei.

   Si può anche entrare in un atteggiamento passivo. In risposta alle minacce,

   rimproveri e accuse del coniuge, il marito o la moglie assumono un attitudine

   passiva. Non sono più puntuali, lasciano molte cose da fare o si involucrano in

   attività che li portano a trascurare la famiglia. Questa ribellione passiva, però, crea

   maggior risentimento, senso di colpa e, quindi, complica il problema.

   Queste sono reazioni normali al senso di colpa, che, come conseguenza, genera

   ribellione. Le minacce della legge (di Mosè) e i sentimenti di colpa che ne derivano

   producono frequentemente maggior ribellione (Romani 5:20 ; 7:7-12).

 

- “Non sono poi così cattivo

   La terza reazione normale ai sentimenti di colpa è di negarli. Diciamo: “Paragonato

   agli altri non sono poi così cattivo”, oppure: “Non era possibile evitarlo”, oppure: “Ho

   fatto del mio meglio”.

   A volte neghiamo totalmente i nostri errori, dicendo: “Non c’è niente di male in

   quello che ho fatto, è il mio carattere”, oppure: “E’ la natura umana”. In questo

   modo addormentiamo la nostra percezione morale del bene e del male. Nella Bibbia

   abbiamo vari esempi di autogiustificazione: Genesi 3:12 / 1 Samuele 15:20-21 /

   Esodo 17:3.

   La propensione a gettare la colpa su altri è ancora attuale ai giorni nostri. Tendiamo

   a proclamare sempre la nostra innocenza.

 

- “Mi dispiace davvero. Non mi castigare

   Quando ci sentiamo colpevoli, ci invade un senso di separazione da Dio e temiamo il

   suo castigo. La colpa diventa così dolorosa che pensiamo di non meritare sollievo.

   Non cerchiamo, così, il perdono e confidiamo che la pena se ne andrà da sola.

   Molte delle nostre confessioni hanno il fine di darci sollievo dall’ansia della colpa e

   non di correggere la nostra condotta per il bene degli altri. Non è una vera

   preoccupazione per la persona offesa, ma un desiderio di dare sollievo alla nostra

   coscienza (vedi Esodo 9:27-28).

   Questo tipo di confessione risale alla nostra infanzia quando dicevamo: “Mi dispiace,

   non lo farò più”, ma solo perché eravamo stati scoperti e temevamo il castigo.

   A volte ci sentiamo così, depressi e peccatori da non poter dormire. Per

   tranquillizzare la coscienza e poter dormire confessiamo, allora, i nostri errori. Non

   è avvenuto, però, un vero cambio interiore e il giorno dopo ci comporteremo come

   prima.

 

 

 

La colpa psicologica

 

Il sentimento di colpa, o colpa psicologica, come dice la parola, è un sentimento. E’ la dolorosa ammissione che: “Ho peccato. Avrei dovuto comportarmi meglio”.

Possiamo aver infranto la legge di Dio senza sentirci colpevoli psicologicamente, oppure essere innocenti legalmente e continuare a sentirci colpevoli senza motivo apparente.

La Bibbia non induce mai il credente ad accettare la colpa psicologica. Non viene mai detto ai credenti di avere paura del castigo, del senso di indegnità o della sensazione di rigetto. In Cristo siamo giustificati.

E’ impossibile separare il sentimento di colpa da una diminuzione della stima propria. Per cercare la liberazione dalla colpa dobbiamo prenderci cura della stima propria.

L’immagine che abbiamo di noi stessi ha le sue radici nella prima tappa della vita, a seconda che ci vengono trasmesse vibrazioni negative o positive.

Gli uomini si sono sforzati per trovare una definizione adatta all’essere umano. C’è chi sostiene che siamo fondamentalmente buoni e pronti a raggiungere mete elevate. C’è, invece, che afferma che siamo dei vermi, una nullità, un fallimento.

La Bibbia dice che siamo: “Molto speciali”, “Profondamente decaduti” e “Grandemente amati”.

 

Molto speciali

Dio ci creò e ci esaltò al di sopra di tutti gli altri esseri viventi. Adamo, il primo uomo, era libero dal peccato, dalla corruzione e dalla morte. Dio non lo collocò in una grotta primitiva, ma in un luogo adeguato alla sua natura: il meraviglioso giardino dell’Eden. Solo l’uomo fu creato a immagine di Dio e solo lui ricevette il dominio su tutta la terra (Genesi 11:26-27).

Malgrado il peccato continuiamo ad essere uomini, siamo sempre immagine di Dio e la nostra dignità innata, così come il nostro valore personale, continuano ad esistere.

Gesù confermò l’alto valore dell’uomo (Marco 8:36 / Matteo 6:30 ; 12:12).

San Paolo riprende questo concetto (1 Corinzi 11:7) e così anche Giacomo (3:9).

Gesù diede la sua vita per noi, perché ai suoi occhi siamo di grande valore (1 Pietro 1:18-19 / 1 Corinzi 6:20 / Romani 14:15).

 

Profondamente decaduti

L’uomo, però, ha peccato ed è caduto molto in basso. La Bibbia lo afferma ripetutamente (Salmo 53:2-3 / Geremia 17:9 / Romani 3:23 / 1 Giovanni 1:8).

Il peccato è il fallimento per non aver raggiunto la gloria morale e la perfezione di Dio. Il peccato è qualsiasi cosa che non sia conforme alla legge di Dio o la trasgredisca. Visualizzandolo, il peccato è come qualcuno che corre senza raggiungere mai la meta, il livello perfetto di un Dio amante.

Teologicamente la depravazione umana significa che Dio esige un livello perfetto di ciò che deve essere fatto e che noi non possiamo fare nulla per raggiungerlo, anche nei nostri migliori momenti.

Molti pensano che la depravazione significa che in noi è assente ogni buon attributo dal punto di vista umano. Niente di più falso! Anche senza la diretta influenza dello Spirito Santo molti di noi potrebbero diventare dei valenti cittadini, anche se non perfetti come Dio richiede.

Anche se siamo ingiusti, Dio ci considera di grande valore e anche se siamo depravati, Dio ci considera meritevoli del suo amore.

 

Grandemente amati

La depravazione è solo una parte della questione. La profondità del nostro peccato richiede l’infinito amore di Dio (Romani 5:8 / Giovanni 17:20-23). Siamo amati da Dio con un amore identico a quello con cui ha amato Gesù, suo Figlio.

Questa realtà deve cancellare la nostra mancanza di stima propria. Non tutti, però, riescono a percepire questo amore, perché legati allo schema del mondo che offre attenzione e interesse solo sulla base dei meriti acquisiti.

L’amore di Dio non mette condizioni. Anche se noi spesso siamo egoisti e ribelli, Lui ci ama lo stesso. E’ totalmente consacrato al nostro benessere, solo perché siamo suoi figli. Anche quando siamo cattivi continuiamo ad avere un grande valore per Lui.

Nella formazione della nostra immagine dobbiamo includere un rispetto per noi stessi simile a quello che abbiamo per Dio. Dobbiamo vederci come figli importanti per Dio e di grande valore per essere semplicemente ciò che siamo.

 

 

 

L’Io liberato

 

Dov’è il punto di unione tra l’agire umano e l’agire divino? In che punto inizia Dio e terminiamo noi? Se ci mettiamo in croce e neghiamo noi stessi, è Dio libero di operare tramite noi? O se ci manifestiamo così come siamo, limitiamo la sua opera?

Quando si parla di “Io” o “Ego” si intende la personalità intera.

 

La carne: il vero colpevole

Per carne si intende la peccaminosità che influenza la vita dell’uomo, cioè tutta la sua personalità.

E’ il principio del peccato in noi, cioè il principio della ribellione, che influenza tutto il nostro essere e ci porta ad avere un’attitudine di opposizione a Dio.

In Romani 7 Paolo non sta dicendo che il suo corpo era cattivo e che i piaceri fisici erano peccaminosi, ma voleva dire che nella tendenza al peccato, cioè in questa forza egoista e ribelle, non c’è nulla di buono.

La carne appare come una forza dentro dell’Ego, ma non uguale all’Ego.

 

Il vecchio uomo: ciò che ero

Il vecchio uomo (Romani 6:6 / Colossesi 3:9 / Efesini 4:22-24) si riferisce a noi quando non eravamo credenti, ossia separati da Dio, senza perdono e totalmente assoggettati dalla nostra condizione caduta.

Come cristiani siamo chiamati adesso “l’uomo nuovo”. Abbiamo una nuova relazione con Dio, siamo cittadini del cielo con tutti i suoi diritti e privilegi.

 

L’uomo nuovo: ciò che adesso sono

In Cristo siamo nuove creature. La personalità intera ha cambiato e si è rinnovata in tal maniera da considerarla come creata di nuovo. Viviamo in armonia con Dio e riceviamo potere per dominare gran parte della nostra ribellione.

 

Guerra civile interiore

Questo cambio radicale porta con sé, però, dei nuovi conflitti. Nella nostra personalità ci sono, adesso, due principi opposti. Da una parte un desiderio di Dio, di giustizia e d’amore, e dall’altra ci sentiamo sospinti verso l’egocentrismo, l’orgoglio e la ribellione.

Lo Spirito Santo partecipa nella battaglia dirigendoci verso il bene, mentre il Diavolo verso il male, vedi Romani 7:14-25.

 

Negazione di se stessi sbagliata

Alcuni vogliono risolvere questo conflitto tramite ciò che chiamano negazione di se stessi. Dicono che dobbiamo crocefiggere il nostro “Io” per poter camminare con Dio. E inventano un insieme di discipline per realizzare questo gioco di espiazione.

Questa cosa non funziona (Colossesi 2:23), perché non bisogna confondere l’Io con la carne. Questa mancanza di chiarezza alimenta forme di autocastigo per liberarci dalla carne, mentre quello che dobbiamo cercare è la morte della nostra natura decaduta e della nostra peccaminosità, ma non dell’Io.

Non dobbiamo odiare noi stessi, ma il peccato che è in noi.

 

Negazione di se stessi corretta

La vera negazione di se stessi è molto differente. Nel dire “negare se stessi” Gesù voleva mostrarci che dobbiamo essere disposti a negarci certi piaceri e desideri per compiere proponimenti più alti e importanti.

Questo tipo di negazione è legato ad una meta che è degna di essere cercata (Luca 3:11 / Romani 14:13), nel senso che è tesa ad aiutare o a non scandalizzare.

Dobbiamo, poi, crocefiggere la nostra condizione peccaminosa (Romani 6:12-13 / 1 Pietro 2:11). Ciò che ci viene detto in questi passaggi non è di crocefiggere il nostro Ego, ma la possibilità di espressione della nostra natura decaduta.

Un’altra ragione per negare se stessi è la predicazione del messaggio cristiano. Questo tipo di negazione non è una riduzione del proprio valore o un odio verso se stessi, ma una rinuncia per raggiungere vette più elevate, più nobili.

 

Quando l’inferiorità si traveste da orgoglio

C’è umiltà vera e umiltà falsa. Alcuni non vogliono avere di sé una buona immagine per timore di inorgoglirsi. L’orgoglio, però, non deve essere confuso con il senso di stima propria.

In Romani 12:3 la Bibbia dice che l’orgoglio è un’autovalorizzazione disordinata, che esagera le nostre virtù o minimizza altri nel tentativo di porci ad un livello più alto.

A volte, però, dietro una forma apparentemente orgogliosa (Marco 10:35-45) si nasconde il timore di non ricevere la giusta considerazione, cioè si nascondono sentimenti inconsci di debolezza e inferiorità

L’orgoglio è un modo per cercare di rafforzare l’insicura immagine che abbiamo di noi stessi e sentirci, così, superiori agli altri.

 

Quando l’inferiorità si traveste da umiltà

Molta della presunta umiltà è solo un modo per coprire sentimenti di indegnità.

Chi chiede continuamente perdono, manifesta una depressione autocondannatoria e non una salutare umiltà biblica. Queste persone tendono ad abbassare la loro dignità come esseri umani. In certi libri cristiani veniamo esortati ad essere dei vermi per Gesù, a desiderare di venir colpiti e schiacciati e a rinunciare ad ogni nostro diritto. E’ certo che dobbiamo sottometterci a Dio e rispettare gli altri rinunciando al nostro egoismo, ma non dobbiamo distruggerci come persone.

 

La vera umiltà

La vera umiltà è molto differente da tutto questo. Riconosce obiettivamente la nostra dignità e capacità, senza esagerarne né sottovalutarne l’importanza. Riconosce che Dio è l’origine di questi doni e che Lui ce li ha affidati.

Dobbiamo essere riconoscenti e contenti per il fatto che Dio ci ha date certe capacità, però dobbiamo dare a Lui il merito di averli distribuiti in noi a causa del suo amore e sapienza.

Questa attitudine ci impedirà di sentirci superiori ad altri.

 

Liberare l’uomo nuovo

La Bibbia dice che dobbiamo liberare il nostro “Io” rinnovato. La nostra personalità, fatta a immagine di Dio, deformata dalla caduta e cambiata radicalmente per mezzo di Cristo, deve crescere, maturare e raggiungere la sua piena espressione.

Paolo dice: “Ogni cosa posso in Cristo che mi fortifica” (Filippesi 4:13). Qui si vede come la parte divina e quella umana si amalgamano. Paolo non dice che Cristo fa tutto e io niente, o io tutto e Cristo niente, ma mette l’accento sul fatto che questo “Io” rinnovato in unione con Cristo fa ciò che Dio vuole che faccia. E’ una relazione umano-divina.

In Filippesi 2:13 viene detto che Dio opera in noi in tal modo da permetterci di fare ciò che Lui vuole. E’ una relazione unificante, collaborativa: Dio opera in noi e per questa ragione noi agiamo, attraverso il nostro “Io” rinnovato, come Lui vuole.

Non possiamo certo vivere questa vita senza l’aiuto di Dio, cioè non ci è possibile fare opere di valore spirituale senza l’aiuto di Gesù (Giovanni 15:5).

L’Io nella sua espressione vera ci permetterà di funzionare in accordo alla nostra particolare personalità e ai nostri talenti.

 

Sono unico

Nel Salmo 139:13-16 Davide dice che Dio pianificò dettagliatamente ogni aspetto della nostra esistenza creata e che stabilì un piano genetico per la struttura dei nostri corpi e delle nostre personalità.

Non esistono due persone identiche e la nostra incredibile individualità manifesta la sua capacità creatrice e riflette il suo disegno divino.

Ciò avviene anche per il mondo fisico, come dice ancora Davide nel Salmo 19:1-6.

 

Sono dotato

Dio ci ha creato deliberatamente con differenti capacità e doni. Non desidera, certo, dei robot e nemmeno dei robot cristiani.

Dio vuole un gruppo di seguaci consacrati in cui ognuno contribuisce con aspetti diversi alla sua creazione (Romani 12:4-8). Tutti abbiamo, quindi, un posto speciale e unico nel corpo di Cristo attribuitogli da Dio.

Lo scopo di questa appartenenza al corpo di Cristo, come suoi membri, non è di annullarci, ma di aiutare altri a crescere.

 

Consigli per liberare l’Io rinnovato

- Avere un atteggiamento d’amore e non di disprezzo verso se stessi.

   Possiamo amarci perché Dio ci ama e possiamo amarci perché Dio ci dice di farlo. La

   Bibbia ci dice che abbiamo un valore positivo tanto per noi che per gli altri.

- Aspettarsi qualcosa da se stessi.

   Dobbiamo aspettarci una vita di buone opere quando il nostro Io rinnovato è stato

   illuminato e fortificato dallo Spirito Santo. Anche se spesso sbagliamo, sappiamo

   che continueremo a maturare e a crescere. Dio lo ha promesso (Filippesi 1:6).

- Ripudiare la nostra condizione peccaminosa senza ripudiare noi stessi.

   In Galati 5:24 abbiamo visto che l’Io e la carne non sono la stessa cosa. Dobbiamo

   riconoscere onestamente l’esistenza della carne con i suoi desideri malvagi e

   renderci conto che perturbano i nostri nuovi desideri di diventare ciò che Dio vuole

   che siamo.

   Quando poi sperimentiamo sentimenti positivi basati sull’amore, dobbiamo dar loro il

   Benvenuto come prodotto naturale del nostro Io rinnovato tramite la presenza dello

   Spirito Santo.

   Dio ci ha fatti nuovi. Non dobbiamo nascondere questo nostro Ego, né averne paura,

   o tantomeno eliminarlo. Dovremo anzi, con umiltà, mostrare le nostre nuove vite

   rigenerate perché il mondo le veda (Matteo 5:16). Dio vuole che sviluppiamo il

   potenziale che è in noi per la sua gloria.

 

Seguendo l’inclinazione naturale

Il processo di crescita cristiana dura tutta la vita. Questa crescita non si produce seguendo la nostra inclinazione naturale. Il nostro vecchio modo di essere si scontra con il nostro Io rinnovato.

Se un estremo è l’autosvalutazione, l’altro è una eccessiva fiducia in noi stessi. In Geremia 17:9 la Bibbia ci avverte che il nostro cuore è ingannevole e perverso.

E’ facile diventare tolleranti e razionalizzare i nostri peccati ed egocentrismo: stiamo attenti! Manteniamo la nostra condotta sui binari del criterio biblico e lasciamoci correggere dai nostri amici e maestri cristiani.

 

Il complesso del pagherò

C’è della gente che ha una specie di libro contabile. Quando il bilancio delle cose positive supera quello degli errori e mancanze, si sentono felici. Nel caso contrario, invece, si sentono sotto un “dovrò pagare” psicologico che li porta a vivere nell’attesa di un castigo.

Quando capita un incidente questo tipo di persone si chiede: “Che cosa ho fatto per meritarlo?” Questo è un altro aspetto del senso di colpa. In Giovanni 9:2 i discepoli vedono nella cecità di quell’uomo un peccato come causa prima della sua condizione. Gesù, però, non conferma questa loro supposizione (9:3).

E’ chiaro che per gli impenitenti alla fine Dio formulerà un giudizio di condanna. Dio, che è misericordioso, non vorrebbe condannare l’uomo, ma la sua giustizia non gli permette di tollerare il peccato.

In Cristo Dio ha risolto questo dilemma, per cui chiunque crede nel suo Figliolo viene giustificato pienamente. Gesù ha pagato il nostro debito e noi siamo liberi da ogni accusa (Ebrei 7:27 ; 10:17 / Romani 6:10 / 1 Giovanni 2:2 ; 1:7 / Colossesi 2:13).

 

Disciplina o castigo?

Dobbiamo renderci conto che, avendo creduto in Gesù, Dio non ci castiga mai per le nostre cattive azioni e che la sua unica finalità è quella di correggerci o disciplinarci. Il castigo è la paga per le cattive azioni e Cristo ha già pagato a questo riguardo 2000 fa. Il Signore, quindi, ci corregge come un Padre amante.

Quando facciamo delle cose che possono arrecare danno a noi stessi, agli altri e all’opera di Dio sulla terra, veniamo da Lui corretti o disciplinati per non ripetere più quegli errori. Può usare a questo riguardo la Bibbia, delle circostanze o altri fratelli.

Dopo la croce di Cristo Dio agisce nei nostri confronti mosso soltanto dall’amore.

I seguenti versetti mostrano la differenza tra il castigo di Dio e la sua disciplina:

Castigo per l’inconverso: Isaia 13:9-11 / Matteo 25:46 / 2 Pietro 2:9

Disciplina per il credente: Proverbi 3:11-12 / Apocalisse 3:19 / Ebrei 12:6-7.

 

La disciplina è il mezzo di Dio per farci maturare. La disciplina guarda verso il futuro e si applica in amore, mentre il castigo guarda verso il passato e riflette l’ira di Dio. La prima produce sicurezza, il secondo paura e ostilità.

Nessuno di noi sfortunatamente è cresciuto con dei genitori che lo hanno disciplinato nel modo corretto. A volte i nostri genitori ci castigavano pieni di rabbia e frustrati, o mossi da un senso di colpa. Altre volte ci minacciavano o ci rifiutavano sottilmente. Per questa ragione abbiamo difficoltà nel vedere la differenza tra il castigo e la disciplina di Dio.

Cristo ha fatto tutto ciò che era necessario per riconciliarci totalmente con Dio e non dobbiamo, quindi, avere paura di Lui (1 Giovanni 4:18).

 

Rispetto e timore

A volte temiamo Dio perché confondiamo il significato di “rispetto” e di “timore”. La Bibbia usa, a volte, la parola “timore” per descrivere una forma di “ansia timorosa”. In altre occasioni usa “timore” per voler significare “rispetto”.

Nei seguenti passaggi biblici “timore” significa “rispetto”: Proverbi 9:10 ; 19:23.

In questi passaggi, invece, significa “ansia timorosa” o “paura”: Ebrei 10:31 / Romani 8:15 / 2 Timoteo 1:7.

E Dio non vuole che abbiamo paura di Lui, ma rispetto.

 

Ricompense

Cristo pagò per tutti i peccati, ma pagò anche per la nostra incapacità di utilizzare tutto il nostro potenziale e di servire Dio nel modo più efficace possibile.

Nessun castigo cadrà, quindi, sul cristiano (Romani 8:1), ma chi non riuscirà a utilizzare tutto il potenziale di cui dispone in Cristo ne soffrirà una perdita di ricompensa nella vita futura (1 Corinzi 3:11-15).

Considerando questo aspetto noi umani potremmo sentirci messi da una parte o dimenticati nel momento in cui Dio dovesse dare una grossa ricompensa ad un fratello o ad un amico. Questo, però, è un concetto erroneo che può produrci molta ansietà e spingerci a cercare delle ricompense.

Quando Dio darà a ciascuno la sua ricompensa, ci troveremo tutti in uno stato di incredibile perfezione e daremo un assenso di cuore ad ogni decisione del Padre celeste. Non percepiremo nessuna competizione o tendenza al confronto.

Il timore al castigo può motivarci ad una intensa attività, ma non saranno le cose ottenute a darci quel senso di libertà e di vittoria che si può ottenere credendo nella giustificazione per fede in Cristo.

 

La legge e la grazia

La differenza più importante tra la legge e la grazia è nel modo come otteniamo l’accettazione da parte di Dio.

La legge dice:   Comportati in modo tale da poter essere accettato.

La grazia dice: Sei accettato, comportati di conseguenza.

La legge presenta numerosi requisiti specifici che dobbiamo compiere per meritare tanto la salvezza eterna come la comunione giornaliera con lo Spirito.

Sotto la grazia ci comportiamo bene come conseguenza di essere stati accettati in Cristo e tendiamo naturalmente a comportarci come Dio desidera.

Efesini 4:32 ci mostra prima l’accettazione da parte del Padre celeste e poi il nostro agire di conseguenza.

La seconda differenza tra la legge e la grazia è in relazione con le benedizioni o ricompense giornaliere.

In Deuteronomio 28:1-6 viene detto ad Israele che in caso di ubbidienza alle leggi di Dio avrebbe ricevuto tutte le benedizioni descritte, mentre in caso contrario sarebbero ricadute sul suo popolo tutte le maledizioni elencate (28:15-20).

Sotto la legge le benedizioni devono essere guadagnate, mentre sotto la grazia Dio ci benedice in maniera incondizionata e così siamo sospinti ad ubbidirgli.

In Efesini 1:13 e Colossesi 3:12 vediamo che le ricompense spirituali ci vengono date grazie all’opera di Cristo e non un nostro merito acquisito.

La legge opera sulla base del timore. Il giudizio, infatti, era pronto a cadere su Israele se non avesse ubbidito (Ebrei 12:19-21).

La grazia, invece, toglie l’ansia timorosa e la sostituisce con un legame d’amore (Ebrei 12:18,22-24). Dio manifesta per primo il suo amore nei nostri confronti e noi rispondiamo con la nostra ubbidienza (1 Giovanni 4:19).

 

La terza differenza tra la legge e la grazia è che nel primo caso i risultati dipendono totalmente da noi, mentre sotto la grazia abbiamo ben di più che le nostre sole risorse, abbiamo lo Spirito Santo (Galati 5:22).

La legge e la grazia non possono mescolarsi, come l’acqua e l’olio, perché i loro principi si contrappongono (Atti 15:10 / Galati 5:1).

 

 

 

ESEMPI PRATICI

 

Anna, moglie di un pastore, soffriva di una profonda depressione.

Aveva un basso concetto di se stessa e pensava di non meritare nessuno dei piaceri che la vita offriva. Il marito, impegnatissimo nella sua funzione di pastore, contribuiva ad aumentare i suoi sentimenti di inferiorità dandole l’impressione che i suoi bisogni fossero meno importanti di quelli della Chiesa.

Avvertito di questa situazione, il marito modificò i suoi programmi per dedicare più tempo alla famiglia. Decisero, così, di fare una vacanza breve da soli, lasciando i bambini ai nonni.

Man mano che si avvicinavano al mare Anna si sentiva sempre più a disagio e percepiva un rifiuto crescente per quella vacanza poco prima desiderata. Passò quei tre giorni come un dovere da compiere, senza poterne gioire e soprattutto senza poter rivedere e riconsiderare la sua relazione col coniuge.

L’idea di aver allontanato il marito dai bisogni della gente, dalla sua azione per portare sollievo a chi era afflitto, le produceva un senso di colpa. Non godendo di quella vacanza si punì. L’idea di mettere il proprio piacere al di sopra dei bisogni altrui la fece sentire indegna e così non si permise di godere di quella vacanza. Si punì, sotterrando i suoi veri sentimenti.

Carla, una donna sposata di circa 30 anni, non provava piacere nei suoi rapporti sessuali col marito.

Proveniva da una famiglia molto religiosa dove il sesso era un tema tabù. I suoi genitori facevano spesso commenti del tipo: “Non c’è più morale”; “Che modo di vestire indecente”; “I giovani di oggi non pensano ad altro che al sesso”. Frasi che hanno, certo, un fondamento di verità, ma che ripetute in maniera martellante e con un’attitudine di condanna hanno fatto credere a Carla che il sesso è una cosa sporca.

Arrivò al matrimonio con una profonda divisione interiore: si sentiva attratta dal desiderio di avere una relazione sessuale col marito, ma percepiva anche che il sesso era una cosa sporca. Viveva, così, il sesso come un male necessario, come un dovere coniugale per soddisfare il coniuge. Si sentiva, però, sporca e degradata, oppure accusava il marito di usarla come un oggetto sessuale e di “pensare solo al sesso”.

L’idea di ricercare il piacere nel sesso la faceva sentire in opposizione al concetto espresso dai suoi genitori (o a quello che lei credeva di aver compreso) e si sentiva, così, di infrangere le norme stabilite da loro. Si sentiva in colpa.

Le uniche volte in cui provò piacere nella sua relazione sessuale col marito fu quando usò lo stratagemma di immaginarsi di essere un’altra persona, un’altra donna, magari una di quelle donne disinibite che si vedono nei film. Ma quando, poi, rientrava in sé, o accusava il marito di “pensare solo al sesso” o si faceva la doccia 4-5 volte al giorno.

C’è, poi, chi tende a deturpare la propria femminilità per non essere più attraente per il marito.

 

Maria, una donna di 35 anni, si sente in colpa ogni volta che desidera qualcosa di buono per la sua vita.

Una voce nell’intimo le dice che dovrebbe vergognarsi ed essere contenta con ciò che ha già.

Dallo psicologo avviene il seguente dialogo:

“Come si sentiva quando suo padre le rifiutava una sua richiesta?”

“Pensavo di non meritare nulla”.

“Ma come si sentiva nei confronti di suo padre?”

“Arrabbiata, ma non potevo esprimerglielo. Non era consentito essere arrabbiati con i genitori”

“Che cosa avrebbe voluto dirgli, se ne avesse avuto la possibilità?”

“Probabilmente gli avrei detto che non mi amava e che non mi capiva, che non sapeva quanto fosse importante per me ciò che gli stavo chiedendo e che di me, in fondo,  non gliene importava molto”.

“Che cosa avrebbe fatto suo padre, se avesse potuto dirgli ciò che sentiva?”

“Mi avrebbe dato un paio di sberle”.

Suo padre, con quell’atteggiamento, era come se le dicesse: “Devi accontentarti con quello che hai e con quello che io ti darò. Io non voglio che tu pretenda di più”. E così il suo “Io ideale”, prese le vesti del padre, la rimproverava ogni volta che la sorprendeva a desiderare di più.

Giovanni, figlio di un predicatore o di un avvocato o di una persona semplice che cercava compensazione nel successo del figlio, si sentiva dire: “Un giorno diventerai un grande predicatore (o avvocato o persona importante)”.

Crebbe con questo peso sulle spalle, con questa alta meta da raggiungere per compiacere suo padre. Quando incominciò a rendersi conto che non avrebbe mai soddisfatto le aspettative del genitore, si sentì colpevole, condannò se stesso per la sua incapacità e si isolò. Poi incominciò a bere per liberarsi dal peso della colpa, della condanna e della indegnità (figlio degenere) e diventò alcolizzato.

 

Chiesi a Giovanna di scrivere 5 frasi su se stessa. Ecco il risultato:

“Sono una madre incapace”

“Sono una delusione per i miei genitori”

“Sono troppo grassa”

“Sono infelice”

“Sono divorziata”.

Davanti alla richiesta di dire qualcosa di positivo riguardo la sua persona, non riuscì a dire altro che:

“Cerco di essere una buona madre”

“Cerco di tenere pulita la casa”.

Giovanna aveva di sé un’immagine molto povera, provocata da un profondo senso di colpa. Era come se dicesse a se stessa: “Sono cattiva. Dovrei essere migliore”.

L’immagine che abbiamo di noi stessi si forma nella prima fase della vita. Se l’ambiente che ci ha circondato ha esercitato su di noi valutazioni e giudizi negativi, impariamo a sentire disprezzo verso noi stessi. La critica costante distrugge la nostra autostima.

Anche l’ambiente religioso ci condiziona, se al minimo sbaglio ci viene ricordato che Dio ci castiga e ci manda all’inferno.

 

Dina aveva avuto un padre alcolizzato. La povera relazione che aveva sviluppato col genitore venne trasferita su Dio. Temeva Dio così come aveva temuto suo padre. Pregava tutti i giorni, ma le sue preghiere non sembravano superare il soffitto della stanza. Dio sembrava essere a un milione di chilometri.

Considerando i suoi timori, le dissi di provare a non pregare per un certo periodo.

“Se non prego tutti i giorni”, disse, “vivrò con la paura che Dio mi punisca fino a farmi morire”. E si mise a piangere.

La sua immagine di Dio era quella di un padre duro e castigatore. Pregava per placare un Dio vendicativo (1 Giovanni 4:18).

 

Antonio, responsabile del ramo assicurazioni vita, non stava concludendo così tanti affari come un tempo. Pensava di aver perso la benedizione di Dio, cioè aveva la tendenza ad accusare se stesso quando le cose non andavano bene.

Le benedizioni spirituali di Dio vengono confuse a volte con il successo commerciale, la prosperità finanziaria e la salute fisica. Il Nuovo Testamento non ci promette tutte queste cose e non afferma che siano la ricompensa per la nostra buona condotta. Spesso sono conseguenze naturali delle nostre azioni.

 

Michele si sentiva colpevole perché si masturbava (concetto religioso o dei genitori). Nella sua infanzia si era sentito inferiore (sembri una femminuccia) e inadeguato nella sua mascolinità. Da adolescente era timido con le ragazze e aveva grosse difficoltà ad uscire con loro.

Incominciò a sviluppare risentimento nei loro confronti, perché non dimostravano apprezzamento per la sua persona. Così iniziò a masturbarsi. L’autostimolazione diventò una valvola di sfogo.

Non sentendosi idoneo per avere una relazione completa con una ragazza, si lasciò andare a quella abitudine e a fantasie mentali. Immaginava di conquistare sessualmente varie ragazze e ciò gli permetteva di scaricare la sua rabbia verso di loro, di evitare i suoi sentimenti di inferiorità, di ottenere una sensazione momentanea di mascolinità e di scaricare le sue tensioni sessuali.

La masturbazione era la conseguenza esteriore dei suoi sentimenti verso se stesso e il sesso opposto. Questi problemi interiori erano l’aspetto importante da affrontare.

 

Aldo era un giovane estremamente sensibile alla voce della sua coscienza. Voleva servire Dio con tutte le sue forze e prestava molta attenzione ad ogni impressione o sentimento interiore, perché non voleva correre il rischio di non ubbidire alla voce del Signore.

Sentiva rimorso per ogni sua imperfezione. Era molto rigido con se stesso e se, per esempio, vedendo un pezzo di vetro sulla strada non lo avesse tolto, si sarebbe sentito colpevole, perché questa sua omissione poteva essere la causa di una ferita ad un bambino.

Si sentiva a disagio per le cose che possedeva e per ogni volta che sentiva piacere.  Si sentiva in debito nei confronti delle persone più povere di lui e dei sofferenti e si diceva che avrebbe dovuto fare di più per loro.

Ogni volta che la coscienza lo accusava, si sentiva di compiere un’opera buona per sentirsi in pace con Dio. Temendo di dimenticare i suoi errori e peccati e, quindi, di porvi rimedio, prese l’abitudine di scriverli sul primo pezzetto di carta che trovava. Entrò in un esaurimento nervoso a causa dell’ansia costante di riuscire a soddisfare il suo Dio così esigente e sempre arrabbiato per le sue imperfezioni.

 

Un monaco convertito raccontò che in lui, quand’era in convento, si era sviluppato un tale senso di colpa a causa dei suoi peccati di pensiero, di parola e di opere, che non pensava a nient’altro che a giustificarsi davanti a Dio compiendo una serie di buone azioni.

Non solo si sentiva colpevole per i suoi pensieri involontari, ma giunse all’estremo di porre i suoi piedi al centro delle piastrelle del convento per non calpestare la croce che esse formavano.

I sensi di colpa possono sorgere anche per aver creato involontariamente un danno ad altri. Per esempio quando in un incidente d’auto il passeggere muore o si ferisce gravemente, quando la mamma non si avvede del piccolo che si rovescia addosso l’acqua bollente. C’è chi, rendendosi conto sull’autobus di non avere il biglietto, il giorno dopo timbra due volte.